Cedaspe, formazione e sicurezza

Cedaspe, azienda elettromeccanica, ha fatto del capitale umano e della sua formazione e sicurezza in azienda un investimento prioritario. Abbiamo intervistato Stefano Moretti, amministratore delegato
Qual è il core business di Cedaspe e qual è stata la vostra evoluzione?
«Noi ci occupiamo di apparecchiature per la distribuzione dell’energia elettrica, in particolare, dei trasformatori collegati ai cavi elettrici. Il trasformatore è una macchina che serve per alzare o abbassare la tensione.
Alla base c’è una sorgente che produce energia elettrica: può essere una centrale nucleare, una diga, un impianto eolico o fotovoltaico. I trasformatori servono proprio per fare in modo che questa energia possa arrivare alle utenze finali, dalle industrie alle nostre case.
Noi facciamo apparecchiature elettromeccaniche che vengono montate sui trasformatori, atte a controllare e a supervisionare il loro buon funzionamento.
La società Cedaspe è nata nel 1967 come Costruzioni Elettromeccaniche Donini: i fondatori facevano parte di una famiglia di Ancona trasferitasi a Milano. Nel 2015, Cedaspe è entrata a far parte del gruppo tedesco Reinhausen, una corporate presente in tutti e cinque i continenti con la sua rete di vendita e i suoi siti produttivi, nei quali lavorano 4mila dipendenti.
A capo del gruppo c’è una famiglia che detiene l’80 per cento delle azioni dello share. Cedaspe, da azienda padronale, è diventata quindi parte di un gruppo dal contesto internazionale.
Per il 90 per cento, noi lavoriamo per il mercato estero e molto poco per il mercato domestico, sebbene tra i nostri clienti di riferimento ci sia Tamini, che è un grande produttore di trasformatori del Nord Italia. I nostri clienti sono prevalentemente europei, asiatici, americani e australiani.
Negli ultimi tre anni c’è stata una vera e propria metamorfosi: da azienda “spezzatino”, con tanti piccoli stabilimenti, ci siamo concentrati sui due plant di Melegnano e San Giuliano Milanese, chiudendo tutti gli altri.
Tutto questo senza aver lasciato a casa nessuno, ma trasferendo ciò che era presente nei vari plant nei siti esistenti. È stata un’operazione certosina, abbiamo dovuto ribaltare completamente il layout della fabbrica e abbiamo ingegnerizzato il nostro processo di fabbricazione.
Abbiamo fatto delle analisi per verificare quali fossero i macchinari migliori e più performanti e li abbiamo concentrati sui due plant esistenti.
Poi abbiamo cominciato a lavorare sull’organizzazione, passo necessario per gestire sia l’aumento di personale – da 60 a 160 dipendenti, con ulteriori prospettive di crescita per il 2024 – sia per l’aumento di fatturato.
Esso è passato dai 18 milioni del 2020 ai 32 milioni del 2023. In prospettiva, passeremo a 45 milioni fra due anni e a 60 milioni nel 2028. Il personale, da un’impostazione top-down e verticistica, ha cominciato a lavorare con un’ottica diversa, da azienda manageriale.
È stato creato un management e un comitato direttivo, con dei capi intermedi: insomma, un’organizzazione che sia capace di camminare con le proprie gambe in maniera autonoma.
Non è stato semplicissimo, soprattutto per le persone tra i 40 e i 50 anni, abituate a chiedere l’autorizzazione a un proprio superiore per poter operare e chiamate, invece, a prendere autonomamente l’iniziativa.
Abbiamo un organigramma abbastanza complesso ma reale: in ogni casella c’è una persona fisica che svolge in piena autonomia la sua attività».
Quanto investe nei propri dipendenti? Quanto è importante per lei il capitale umano?
«Sembra una frase fatta, ma l’azienda è fatta di uomini e di donne. Gli investimenti sugli impianti, sulle tecnologie e sui software sono necessari, però la componente umana è sempre la più importante.
Questo vale ancora di più quando si alza l’asticella della tecnologia: il capitale umano deve crescere e si deve passare da persone con bassi profili a persone che, invece, devono avere delle competenze specifiche e complesse.
Infatti, noi investiamo tantissimo sulla formazione e sulla sicurezza dei lavoratori. Per me non c’è business senza sicurezza.
Dopo i protocolli delle visite e la formazione interna, i nostri dipendenti frequentano regolarmente dei corsi di aggiornamento, che consentono di non far abbassare mai il livello di guardia. Per questo stiamo ottenendo la certificazione ISO 45001, proprio in tema di salute e sicurezza sul lavoro.
Cerchiamo anche di coltivare una certa educazione ambientale: i rifiuti devono essere gestiti in un certo modo, come l’acqua non deve essere mai sprecata.
Per far crescere il nostro business, abbiamo pensato di riservare una particolare attenzione alla formazione, spendendo tantissime ore per aggiornare le competenze di chi lavora alle macchine utensili e ai robot e per chi fa controllo qualità.
Per il prossimo anno, in tema di formazione presso enti terzi, spenderemo 500 euro per ogni dipendente, nell’ottica di ottenere certificazioni o qualifiche di un certo spessore.
Un altro aspetto fondamentale sono le condizioni ambientali del posto di lavoro: una fabbrica deve essere bella, pulita e piena di piante. Deve far sentire a proprio agio le persone. Inoltre, deve esserci trasparenza e condivisione di quelli che sono gli indicatori dell’azienda, in termini di performance nei confronti dei clienti o in termini di fatturato.
Una volta certi numeri erano di dominio dell’amministratore, del direttore finanziario e di pochi altri. Oggi tutto viene condiviso: noi lo facciamo attraverso delle aree dedicate, che chiamiamo Shopfloor Management.
Qui, ogni mattina, tutto il management, da me fino ai capi funzione, ci disponiamo in cerchio e discutiamo per mezz’ora sulle problematiche che eventualmente sono emerse e su ciò che deve essere fatto durante la giornata.
Abbiamo un sistema di T-card, ossia dei bigliettini che si possono appendere, sui quali scrivere il tema e una sua piccola descrizione, individuando chi deve risolvere la problematica.
Su un tabellario, suddiviso in base ai giorni della settimana, vengono appesi i T-card. In questo modo riusciamo a verificare se tutti i problemi sono stati risolti.
Abbiamo un target di fatturato: se dobbiamo fare 31 milioni di fatturato nel corso del 2023, mese per mese, settimana per settimana e giorno per giorno, dobbiamo darci degli obiettivi.
Non è mai positivo per l’azienda fatturare nelle ultime due settimane del mese, significa trovarsi il magazzino pieno di materiale e spendere tempo e risorse per spostarlo. La mia convinzione è che bisogna sempre lavorare per piccoli step progressivi».
Nel 2021, ha partecipato a una tavola rotonda sul tema “La DiversAbility come fattore di competitività” per parlare di come trasformare l’obbligo di legge del collocamento mirato in una opportunità.
Ha applicato questa misura alla sua azienda?
«Sono stato invitato per testimoniare il nostro rapporto con Iride, una società di Monza che ormai è diventata un nostro fornitore o, meglio, un nostro partner.
A essa abbiamo affidato in outsourcing le attività di assemblaggio dei nostri particolari.
La sua peculiarità consiste nell’impiegare unicamente personale diversamente abile: dei 50 che ne fanno parte quasi tutti sono impiegati presso Cedaspe.
Le aziende con personale normodotato spesso hanno difficolta a far applicare ai propri dipendenti i concetti della World Class Manufacturing, che si basano sulla standardizzazione e la scomposizione delle attività, fino ad arrivare alla massima semplificazione.
Diversamente, chi ha delle disabilità intellettive ha l’esigenza di richiedere questa scomposizione, in quanto diversamente non sarebbe in grado di ripetere le operazioni.
Lavorare con Iride ci ha dato grande soddisfazione e siamo contenti di poter dire che grazie ai nostri ordini ha accresciuto significativamente il suo volume di lavoro».