Il paradosso della società italiana secondo Ricolfi: signorile e massificata
Avete mai giocato a sette e mezzo? Probabilmente sì, perché è uno dei giochi di carte più popolari in Italia, specie in famiglia, a Natale. Sette e mezzo è quel gioco d’azzardo dove in realtà si azzarda ben poco ma soprattutto ci si affida a una cospicua dose di fortuna iniziale: obiettivo del gioco è infatti fare sette e mezzo, o avvicinarsi il più possibile a questo punteggio, senza sballare, cioè senza andare oltre il punteggio indicato, pena il pagamento di una posta. Si possono chiedere altre carte oltre alla prima ricevuta, nel tentativo di fare sette e mezzo, quindi “si sta”, come si dice in gergo, ovvero si accetta il risultato delle proprie carte per vedere quelle degli altri giocatori; è evidente che chi dovesse partire con un sei/sette ha convenienza a puntare il massimo e stare – rischiando, appunto, ben poco.

Dicevamo che sette e mezzo è uno dei giochi più popolari in Italia, e in effetti pare che gli italiani, intesi come popolo-nazione, ci stiano giocando da almeno trenta anni con indefettibile entusiasmo.
Se anche con indiscutibile profitto è l’interrogativo che ha stimolato Luca Ricolfi a scrivere un libro come La società signorile di massa (La nave di Teseo, 2019), a tratti duro nella spietatezza della sua analisi, ma anche estremamente stimolante per la lucidità del suo sguardo sullo stato della società italiana. Chiariamo subito che Ricolfi non parla di sette e mezzo, o meglio non di questo gioco d’azzardo nello specifico, ma della passione molto italiana (record europeo) per il gioco d’azzardo in generale (slot machine e i vari gratta&vinci), assai meno innocua di un passatempo familiare: nel 2018 la spesa complessiva per il gioco d’azzardo (solo quello legale) ha raggiunto infatti l’astronomica cifra di 107,3 miliardi di euro, cioè una cifra pari a quanto spendiamo per l’intero servizio sanitario nazionale – una somma che già prima della pandemia da Covid-19 non avrebbe mancato di lasciare sbigottiti, e che oggi, dopo l’onda d’urto che il nostro sistema sanitario ha dovuto fronteggiare, lascia del tutto sgomenti.
Ma questo vorace appetito per il gioco d’azzardo è solo uno dei tanti aspetti che, stando ai numerosi dati raccolti da Ricolfi, caratterizzano la società italiana contemporanea; in veloce rassegna, gli altri sono: alto numero di auto per famiglia, l’80% degli italiani ha una casa di proprietà, vacanze lunghe, alto numero di telefonini per abitanti, molti pranzi fuori casa, record europeo di iscritti in palestra, record europeo di Neet (cioè giovani disoccupati, inattivi o che non studiano), alto consumo di sostanze stupefacenti, tasso di patrimonializzazione tra i più alti al mondo.
Con sintesi efficace, l’autore definisce quindi quella italiana una “società signorile di massa”, perché, come nelle classi signorili di un tempo, ci si dedica più allo svago che al lavoro, e perché questa condizione di privilegio non è più appannaggio di una minoranza bensì della maggioranza della popolazione.
Comprensibilmente l’espressione “signorile di massa” potrebbe suonare a qualcuno come paradossale, addirittura provocatoriamente offensiva, pensando alle situazioni di disagio che pure esistono e che i vari osservatori registrano e denunciano. Ma non c’è trucco, non c’è inganno, è questo infatti il punto di arrivo della traiettoria economico-sociale italiana dal dopoguerra a oggi: un processo che affonda nel tempo e piuttosto graduale, e per questo poco avvertito dai più. Vediamo come ci siamo arrivati. Nel 1979 l’economista francese Jean Fourastié coniò un’espressione – quella dei Trente Glorieuses, i trenta gloriosi – destinata a grande successo e che allude all’epoca di ininterrotta, fortissima crescita economica del dopoguerra che va dal 1946 al 1975, trent’anni durante i quali il sistema di vita americano, basato sull’espansione dei consumi privati, si affermò nel mondo occidentale e in particolare proprio nei paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale: Giappone, Germania e Italia, tutti e tre si resero protagonisti di veri e propri “miracoli economici”. Poi arrivarono le crisi petrolifere che arrestarono questa fortunata serie di anni e che (ri)portarono a livelli preoccupanti la disoccupazione, livelli che, da allora, seppur con fasi alterne, non sono mai stati davvero riassorbiti. Negli anni Ottanta il mondo occidentale (Giappone incluso) conobbe una nuova stagione di arricchimento, in gran parte trainata dalla finanza e dall’edonismo reaganiano – e che pure lusingò, sebbene solo temporaneamente, l’Italia craxiana con due sorpassi del nostro pil prima su quello britannico nel 1987 e poi su quello britannico e francese nel 1991 – ma che conobbe una traumatica battuta d’arresto nel crollo di Wall Street, con il famigerato lunedì nero del 19 ottobre del 1987. Dunque gli anni Ottanta non aprirono un’ulteriore fase di sviluppo economico certo e prolungato per tutti, e di sicuro non la aprirono per il nostro paese che proprio da quell’illusorio maggio 1991 in cui Giulio Andreotti annunciava che “l’Italia era la quarta potenza del mondo” vive invece una trentennale (potremmo chiamarli i nostri trenta ingloriosi?) fase di sostanziale stagnazione economica e sociale.
In effetti Ricolfi fa risalire addirittura al trentennio precedente (1964-1994), cioè dalla fine del boom economico alla caduta della cosiddetta prima repubblica, l’inizio della trasformazione dell’Italia in società signorile di massa, cioè da quando la quota di reddito che sgorga da salari e profitti, ovvero dal sistema produttivo, si riduce irrimediabilmente a favore di quella derivante dall’espansione del debito pubblico, dal risparmio delle famiglie e dal mero apprezzamento degli asset posseduti, specie delle case.
È però vero che questa trasformazione può dirsi compiuta dai primi anni novanta in poi quando “a dispetto della lunga crisi nel 2007-2008, il potere d’acquisto complessivo degli italiani è aumentato in modo apprezzabile. Solo che ora il miglioramento del tenore di vita è affidato esclusivamente alla dinamica della ricchezza, case e risorse finanziarie, e non più alla dinamica dei redditi.”
Chi è che non rischia, o non ama rischiare? Chi ha – o percepisce di avere – molto da perdere. Pertanto gli italiani progressivamente si sono ritirati dalle attività produttive più rischiose (ma anche più innovative e più connesse con il mutare dei tempi) per amministrare e/o godersi situazioni di benessere pregresse. Con questo tipo di mentalità non stupisce quindi osservare, come fa Ricolfi, lo stesso crescente disinteresse per un altro settore dove invece è, o dovrebbe essere, connaturata un’alta propensione al rischio (costruttivo) e cioè la ricerca pubblica e più in generale l’istruzione pubblica, settori propulsori entrambi, nei paesi in cui funzionano, di dinamismo tecnologico-produttivo e sociale. E nonostante lo smantellamento delle istituzioni educative abbiamo assistito, specialmente in anni recenti, al dilagare di aspettative giovanili per occupazioni e retribuzioni poco corrispondenti all’effettiva disponibilità del mercato del lavoro, da cui i noti fenomeni di procrastinazione degli studi o di selezione dell’occupazione più sulla base di esigenze di status che di reddito. A tenere in piedi una struttura sociale siffatta, ed è il terzo pilastro dell’analisi dell’autore, sarebbe quella che Ricolfi chiama, con un termine forte ma necessario, un’ infrastruttura paraschiavistica, ovvero tutte quelle figure professionali che per mansione o tipologia contrattuale (laddove esistente e non si tratti di lavoro in nero) esercitano un lavoro con una componente di pesante sottomissione rispetto al datore di lavoro e comunque è percettore di una retribuzione non garantita, non adeguata, non tutelata. Molte categorie professionali rientrano in questa tipologia: lavoratori stagionali, colf e badanti, braccianti, lavoratori dell’edilizia, logistica, prostitute e intermediari del narcotraffico, rider, cooperative che svolgono servizi esternalizzati (pulizie, sorveglianza, assistenza sociale e sanitaria), per un totale di 3,5 milioni di lavoratori, stima Ricolfi, ovvero circa un occupato su sette.
Ricchezza accumulata dai padri, distruzione di scuole e università e un’infrastruttura di lavoratori sottoretribuiti sono le tre condizioni che in Italia si sarebbero venute a creare per quella che Ricolfi chiama una “società signorile di massa”. La domanda, in conclusione, è se una situazione di benessere socioeconomico possa durare a lungo senza essere adeguatamente sostenuta da robuste attività produttive. L’autore sembra dubitarne ma non crede necessariamente al declino ineluttabile del nostro paese. È evidente però che auspica correttivi importanti, destinati a rimescolare le carte del gioco, o meglio ancora a cambiare gioco. Di sicuro, il suo volume chiaro e diretto è un invito al paese a guardarsi allo specchio e dirsi, per usare le parole di Katherine Mansfield: “Rischia! Rischia tutto! Fa’ la cosa che ti sembra più difficile, agisci per te, e affronta la verità”. E, per l’Italia, le cose più difficili da fare sono quelle riforme – del fisco, della giustizia e della pubblica amministrazione – di cui si parla da trenta (ingloriosi?) anni.