Innovazione spaziale, quando upstream fa rima con green

Le prospettive di sviluppo di D-Orbit, un’eccellenza comasca nella space economy internazionale
Dallo spazio arrivano sempre più opportunità. Il settore delle tecnologie satellitari in particolare vede crescere numeri e giro d’affari a livello nazionale e anche territoriale che destano un crescente interesse. «Con un comparto spaziale nazionale composto da poco più di 200 imprese – ci racconta Jacopo Celentano, project manager dell’agenzia delle aziende spaziali Aipas – l’Italia è quinta al mondo e seconda in Europa per spesa in space economy in rapporto al Pil (0,55%) ed è il terzo contribuente dell’Agenzia Spaziale Europea nel 2020 con 665,8 milioni di euro, dietro a Germania (1311,7 milioni) e Francia (981,7 milioni)».
Una spinta che senza dubbio gode anche di recenti sostegni, come ci conferma lo stesso dirigente. «Diverse risorse sono state già stanziate, ad esempio guardando al Pnrr, ma è vitale per il nostro settore sostenere il fertile tessuto di piccole e medie imprese. Lo Spazio italiano, infatti, è costituito in gran parte da Pmi (quasi l’80%), midcaps indipendenti e sempre più numerose startup innovative, generalmente non incluse nella filiera di fornitori delle grandi imprese a partecipazione pubblica».
Una sorpresa, forse, che però fa i conti con un’energia territoriale non trascurabile.
«L’intero comparto realizza un valore annuale in produzione di circa 2 miliardi di euro, con un numero di addetti di circa 7.000 unità e una crescita del 15% negli ultimi 5 anni e – conclude il responsabile dell’Aipas – In questo quadro la Lombardia è una delle regioni dove più si concentrano le imprese spaziali».
Tra le start up di lunga data, ad esempio, c’è la D-Orbit che ha il suo head quarter a Fino Mornasco (CO) e rientra nelle “top 5” delle grandi aziende spaziali italiane, contando su una forza lavoro di 140 persone e pronta ad assumere una trentina di qualificati profili per raggiungere entro l’anno le 170 unità nel suo staff. L’ambito downstream (ossia la vendita di dati per previsioni meteo, traffico marittimo o aereo, connettività e servizi per le telecomunicazioni da parte di operatori che hanno la loro costellazione di satelliti in orbita) sta guadagnando sempre più terreno. Conseguentemente il settore upstream, ovvero il trasporto di apparecchiature a bordo di satelliti per lo sviluppo del downstream, cresce d’importanza e con loro i player che ottimizzano questi flussi in aumento verso lo spazio, ambito in cui sta emergendo proprio la società lariana.
«Ci definiamo un’azienda di logistica spaziale, investiamo nella ricerca e a ogni missione aggiungiamo un grado di complessità per cercare di ottimizzare i nostri servizi e dare la possibilità ai nostri clienti, che ci danno il device da testare, di risparmiare sui costi di un satellite invece ad hoc – ci racconta Renato Panesi, chief commercial officer di D-Orbit –. Con i nostri servizi di “in-orbit transportation”, siamo in grado di gestire anche i fine-vita dei satelliti al termine del loro ciclo operativo, favorendo il ricambio degli slot spaziali».
E in un’epoca di interconnessioni sempre più rapide ed evolute, l’obiettivo vincente nell’industria satellitare si gioca tutta sui tempi. In tal senso gli investimenti per bruciare le tappe sui processi sono in aumento ed ecco perché la specializzazione di questa azienda lombarda nel settore sta diventando strategica.
«Un servizio come il nostro riduce i tempi di posizionamento del satellite a poche settimane, rispetto a quei satelliti autonomi, con un proprio sistema di propulsione, che impiegano 6-9 mesi per posizionarsi prima di poter essere pienamente operativi».
Su una vita media di un satellite di 3-5 anni questo vuol dire risparmi e investimenti in operatività. E l’aumento previsto è talmente esponenziale che diventa fondamentale rivolgersi a chi lavora nell’upstream, riducendo tempi e dunque costi, a fronte di una domanda di lanci in continuo aumento.
«Dallo Sputnik del 1957 al 2000 – fa notare Panesi – sono stati lanciati seimila satelliti, mentre ne sono previsti trentamila solo nel prossimo decennio». E con l’aumento di missioni, anche i costi di lancio (come quelli di fabbricazione) sono stati abbattuti, così un asset da mandare in orbita è passato – in 10 anni – da 20mila euro al kg a 5 euro.
Fino al 2000 i veri player nel settore erano Usa, Ue (con l’Agenzia Spaziale Europea), Russia e Giappone, mentre oggi, fiutate le potenzialità e ridotte le spese, la competitività è aumentata essendo un settore accessibile a realtà aziendali dislocate anche in Africa, Sud America e Medio Oriente.
Così anche D-Orbit, tra le pioniere del settore e impegnata in Italia dal 2019 sui lanci commerciali, ha visto crescere nettamente la quantità di commesse, il numero di contratti e le missioni realizzate (una nel 2019, tre entro l’anno e per il 2022 ne sono previste già almeno 5), con un fatturato che è passato da 1,7 milioni di euro nel 2017 a 2,2 nel 2020.
«Il nostro è ormai un mercato globale: gli Usa giocano un ruolo importante con un buon 40%, mentre il 30% è dell’Ue. C’è poi il Regno Unito, che detiene un 20% e dove abbiamo un’altra nostra sede [oltre a Washington e Lisbona, n.d.r.]». Quale sia la prossima sfida, in un’era di estremo consumo delle tecnologie in tempi sempre più rapidi, è facile dirlo. L’economia nello Spazio oggi chiede la capacità di recuperare risorse, liberando al tempo stesso slot sempre più preziosi. Se da un lato aumentano le richieste da clienti che vogliono testare le loro apparecchiature nello spazio per esperimenti di micro-gravità (ad esempio in ambito scientifico, nelle biotecnologie o nella farmacologia), dall’altro c’è sempre più interesse a entrare sul mercato nel comparto del “in orbit servicing”, ovvero creando la possibilità – con l’aiuto della robotica – di procedere all’analisi dei satelliti in orbita già da qualche anno, per verificarne lo stato, l’eventuale possibilità di prolungare la loro operatività o di sostituirne il carico.
La società comasca sta perciò investendo proprio su tecnologie di controllo e di cybermeccanica di precisione per una “missione nella missione” che, non solo sposa una logica di ottimizzazione dei costi, ma anche quella del recupero della componentistica, molto apprezzato dal mercato.
«La nostra vision è proprio quella di creare un’infrastruttura che permetta all’uomo di utilizzare al meglio le risorse che sono e saranno nello spazio, in modo sostenibile. È presumibile pensare – conclude Panesi – che se oggi le navi si costruiscono nei porti, un domani con i satelliti si potrà fare direttamente nello spazio, magari riciclando materiali presi da altre strutture in disuso».
https://aipas.it/