Il grande cambiamento – Intervista a Raffaele Bonanni
Il grande cambiamento. Nuovi modelli, lavoro nuovo. Intervista a Raffaele Bonanni
L’apertura sul tema innovazione è un’intervista a Raffaele Bonanni. Le opinioni di un profondo conoscitore del mondo del lavoro sono fondamentali per entrare subito nel merito della grande opportunità e criticità della fase che stiamo attraversando: il Capitale Umano. Raffaele Bonanni è stato per molti anni segretario generale della CISL nazionale e oggi è professore straordinario di diritto del lavoro presso l’Universitas Mercatorum, impegnato nell’associazionismo cattolico ed è presidente della fondazione Spaventa
La pandemia e le nuove criticità della guerra alle porte e la crisi energetica ci costringono a pensare a nuovi modelli di sviluppo. Verso quali orizzonti e soluzioni innovative?
«In questi ultimi tre anni sono state messe in crisi molte nostre convinzioni e abitudini e attraversiamo una fase di grande criticità. Ma come accade ciclicamente nella storia, le difficoltà ci fanno superare le abitudini che possono ostacolare il progresso e ci permettono di vedere aspetti importanti nel passato non considerati. Ad esempio, il caso della pandemia ci ha preso alla sprovvista, culturalmente disabituati, come siamo stati, a considerarla una evenienza possibile. Sono passati cento anni dall’ultima grande pandemia, la “spagnola”, che ha ucciso più italiani della Prima guerra mondiale, ma nella nostra memoria già non c’è più traccia. Ora sappiamo di essere fragili e che la sanità dovrà essere organizzata in gran parte per prevenire. In verità lo sapevamo già prima, ma gli interessi consolidati nella organizzazione sanitaria hanno finora prevalso sul buon senso e sugli avanzamenti della scienza. Voglio essere convinto che la traumatica esperienza abbia indebolito ogni resistenza per il cambiamento. Possiamo usare le stesse considerazioni per le dinamiche che hanno riguardato l’evidente esposizione a rischi di sicurezza e di autonomia che abbiamo corso e che potenzialmente possiamo ancora correre nell’organizzazione della fruizione civile ed industriale dell’energia. L’invasione dell’Ucraina ci ha dato nuovi occhi per vedere meglio i rischi che abbiamo corso sinora, dando credito ad autocrati e alla loro capacità di infiltrarsi nelle maglie della democrazia, la nostra compresa. Infatti, fino ad ora non ci siamo nemmeno premurati di avere un piano energetico nazionale che potesse prevedere i fabbisogni ravvicinati e a lungo termine, le sue variabili, i suoi costi, le garanzie di collaborazione con partner affidabili, le tecnologie, la diversificazione delle fonti per raggiungere autosufficienza, l’incremento delle fonti pulite e rinnovabili. Anche in questo la società italiana si è abbandonata a scelte condizionate dalle pressioni provenienti dai più disparati ambienti: alcuni ideologiche, altre determinate da interessi non sempre trasparenti. Nel recente passato ci siamo consegnati a Putin, abbiamo rinunciato drasticamente al nucleare che produce energia a costi molto più bassi delle fonti fossili e necessariamente da appaiare alle rinnovabili idroelettriche, fotovoltaiche, eoliche, per garantire continuità nella sicurezza di approvvigionamento per un paese evoluto come il nostro e con una industria molto avanzata che dipende sensibilmente dai costi energetici per garantirsi competitività nei mercati internazionali. Ecco, lo sgomento che abbiamo subito nell’impennata dei costi del gas a causa delle evidenti orchestrazioni dei russi e dei ricatti di lasciarci al freddo quest’inverno, sono stati largamente smentiti. Il rischio incombente ci ha permesso di cambiare la fornitura russa con quella di altri partner, il prezzo del gas volge al ribasso, nel paese finalmente c’è più concretezza e buon senso. Cosicché le infrastrutture come i termovalorizzatori, i rigassificatori ed i piani di espansione del fotovoltaico, eolico, geotermico, accompagnate in futuro al nucleare o all’idrogeno, potranno darci sicurezza, autonomia piena, costi accessibili».
Parliamo di capitale umano. Il gap tra domanda e offerta di lavoro supera il milione e trecentomila posti non occupati per carenza di risorse umane. Lo smart working è diventato per molte aziende una delle forme usuali di lavoro. Altre cominciano a pensare alla settimana di quattro giorni. La Next Generation è evocata da tutti, ma lo spazio ai giovani è ridotto per il lavoro classico in azienda. Molti giovani si auto organizzano con start up e creatività, ma per la grande massa che prospettive si vedono?
«La pandemia, la guerra, la strategia di energie autonome e pulite, ci hanno svelato che l’unica via per progredire nello sviluppo civile ed economico è quella di investire nel capitale umano. Per ora in Italia, il tema della crescita e custodia del capitale umano non sembra che stia in cima ai nostri pensieri. Lo dimostra l’imbarazzante e grande mismatch tra le qualifiche richieste dal sistema produttivo nelle produzioni e nei servizi e la diffusa disoccupazione a causa della inefficienza del sistema di istruzione e formazione non ben collegati con le imprese. È però segnalato anche dalla perdita di molti giovani che preferiscono lavorare all’estero a ragione di offerte salariali molto più alte. Non è del tutto negativo che i nostri giovani si rechino all’estero a fare esperienza, purché ritornino. Il nostro sistema dovrà prepararsi per essere più attraente e accogliente. È in atto una rivoluzione del digitale pervasiva in ogni attività umana, ma è noto che l’attenzione a questi nodi nelle programmazioni e negli ambienti dell’apprendimento non sono cambiati nemmeno con le enormi possibilità che ci offre il PNRR. Credo che questo gap, per essere superato dovrà poter contare su un’azione potente, almeno quanto sia quella dei cambiamenti in atto. Abbiamo una classe dirigente consapevole di dover guidare questa impresa che in larghissima parte influenzerà il nostro futuro? Vedremo! E intanto si sono presentate esigenze e situazioni di forte innovazione nel modo di lavorare accelerate certamente dalla pandemia, soprattutto a partire dal suo culmine del drammatico lock down. Il drastico freno imposto alla mobilità e l’esigenza di erogare servizi e di limitare il più possibile il totale blocco delle produzioni ha suggerito di ricorrere al lavoro agile, alla possibilità di lavorare a distanza dalle abitazioni dei lavoratori, che hanno così potuto garantire la continuità del loro impegno ma senza orari prestabiliti per il loro carico di lavoro. Queste situazioni inedite per lavoratori e imprese hanno cambiato fortemente l’idea di spazio e di tempo riguardo alle attività lavorative. Hanno sviluppato nuove prospettive positive di risparmio di tempo limitando lo stress, riducendo i costi per la mobilità e generando minori emissioni di CO2, con interessanti miglioramenti di produttività. È facile prevedere che nel futuro prossimo crescerà sensibilmente lo smart working, che pone nodi importanti da sciogliere nella contrattazione collettiva tra le parti sociali, come il passaggio inevitabile dalle ore attuali usate per misurare la quantità del lavoro ai fini della retribuzione mensile, ai sistemi di calcolo per carichi di lavoro affidati nella libertà di esercizio del proprio lavoro e dei criteri di premialità per la maggiore produttività che ne deriva. Va osservato che le tecnologie in grado di supportare il lavoro online, come qualsiasi altra modalità che giornalmente oramai utilizziamo in tutte le altre attività umane, potevano funzionare normalmente già da almeno una decina di anni, presenti come erano nella nostra disponibilità. Si conferma anche in questa circostanza come l’umanità venga trascinata dalla ruota della storia nei suoi cambiamenti, soprattutto nei momenti di emergenza. Le abitudini che portano alla staticità non sono altro che la paura di affrontare le realtà nuove percepite come rischi. Ma solo le catastrofi ci imprimono la forza di superarle attraverso il nuovo che appena raggiunto ci apre prospettive molto più vantaggiose di quelle abbandonate. È dunque la teoria schumpeteriana che ci ricorda che il passaggio dai criteri vecchi di produzione alle nuove. Il disagio legato al superamento delle vecchie tecnologie di cui abbiamo piena padronanza, con quelle nuove e le inedite modalità di funzionamento, tutto ciò che si perde viene superato da una maggiore produttività e da nuove opportunità. Il punto critico su cui impegnarsi per estinguere i disagi e moltiplicare le opportunità attiene il tempo che impieghiamo nel passaggio dal vecchio al nuovo attraverso istruzione e formazione. Mai come in questo tempo, e grazie alla modernità, superando spazio e tempo con le nuove tecnologie giovani anche delle realtà più periferiche, hanno occasioni formidabili per l’apprendimento, per prestare la loro opera, per costituire start up partendo dal proprio territorio e aperti al mondo. Anche la riduzione dell’orario di lavoro può diventare occasione di cambiamento. Per cogliere pienamente la forza di questa possibilità, occorre organizzarla e contrattarla collettivamente azienda per azienda. D’altronde solo con la maggiore produttività si riuscirà a garantire il medesimo salario ad orario ridotto. È anche da dire che l’orario ridotto dovrebbe essere produttivamente impiegato non solo per il riposo, ma anche per migliorare le abilità professionali dei lavoratori ai tempi della rivoluzione digitale.
Ecco perché i governanti, le parti sociali, il paese, dovrebbero rivoluzionare la scuola e la formazione, per aiutare i cittadini ad essere a loro agio in questo tempo di passaggio che apre tanti altri interessanti e importanti prospettive per l’umanità in cammino nella propria storia di ricerca costante del cambiamento nella modernità».