• 18/05/2024

Le clausole individuali nei rapporti di lavoro subordinato

 Le clausole individuali nei rapporti di lavoro subordinato

UN’IMPORTANTE OCCASIONE PER LA STABILIZZAZIONE DELLA FORZA LAVORO

L’attuale contesto lavorativo in Italia appare oggi – come poche altre volte nella nostra storia  – estremamente polarizzato e fratturato, con la pandemia che ha fatto da catalizzatore all’inevitabile processo di cambiamento  che, in parte, era già in corso: se da un lato la trasformazione digitale ha impattato e impatterà sempre più sul mercato del lavoro restituendo un ruolo primario alle “competenze” dei lavoratori, dall’altro il periodo pandemico ha rivoluzionato la percezione del tempo e della liberà personale da parte dei lavoratori, con conseguente fuga da interi settori lavorativi (quali ad esempio la ristorazione) o da modalità di svolgimento della prestazione lavorativa non più in linea con le attuali priorità in tema di conciliazione tempi di vita e di lavoro.

Ed è in quest’ottica che possono essere analizzati i dati su occupazione e dimissioni relativi all’anno in corso, dai quali emerge l’evidente spaccatura tra coloro che sono esclusi dal mercato del lavoro (probabilmente per mancanza di competenze o perché in possesso di competenze non richieste dal mercato) e coloro che invece si muovono liberamente all’interno dello stesso mercato grazie alla spendibilità delle competenze acquisite.

Sebbene infatti gli ultimi dati sull’occupazione siano positivi, ad oggi permangono ancora circa mezzo milione di persone disoccupate; nonostante tale dato, nel corso del primo semestre 2022 si è registrato un forte incremento del numero di dimissioni volontarie, pari al 22%  in più rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente (INPS); ma il dato che forse è più sorprendente è quello che emerge da una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, secondo cui, il 40% dei dimissionari hanno presentato le dimissioni senza la certezza di un nuovo impiego lavorativo e, aggiungerei, senza possibilità di accedere alla Naspi.

Senza entrare nel merito delle motivazioni personali e professionali poste alla base delle scelte, è tuttavia facilmente presumibile che tali lavoratori dimissionari siano in possesso (o ritengano di poterne entrare in possesso) di competenze lavorative che possano permettergli di migliorare la propria posizione lavorativa e di conseguenza le proprie condizioni di vita.

Se, ad avviso di chi scrive, un processo di spostamento del baricentro del mercato del lavoro dalla tutela passiva nel posto di lavoro ad una tutela attiva del lavoratore nel mercato del lavoro – mediante un reale ed efficace intervento volto ad innalzare il livello delle competenze lavorative – non solo è auspicabile ma è necessario e non più prorogabile, è tuttavia vero che l’altra faccia della medaglia di tale processo riguarda una crescente mobilità nel mercato del lavoro, con lavoratori che saranno sempre più stimolati a cambiare datore di lavoro per massimizzare i frutti delle proprie competenze.

Tale maggiore mobilità, specialmente se riferita a profili lavorativi specifici e di difficile reperibilità nel mercato del lavoro, comporta la necessità per le aziende di adottare interventi volti alla stabilizzazione del proprio patrimonio di competenze umane, fondamentale per la produttività aziendale: sotto questo aspetto è quindi fondamentale cercare innanzitutto di elevare il livello di benessere percepito dai lavoratori in azienda ma anche, oggetto del presente approfondimento, intervenire mediante la stipula di clausole individuali che possano contribuire alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.

LA CLAUSOLA DI DURATA MINIMA GARANTITA

La clausola di durata minima garantita, nota anche come “patto di stabilità” è una clausola contrattuale che può essere inserita nei contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e nel quale le parti stabiliscono un periodo entro il quale si impegnano a non recedere dal rapporto di lavoro, ferma restando la possibilità di recesso per giusta causa.

Tale clausola non è disciplinata da una normativa specifica, ma trova i suoi principi di regolamentazione nelle pronunce giurisprudenziali e nelle interpretazioni fornite dalla dottrina: in particolare il suo fondamento giuridico è posto sull’assunto che l’ordinamento non pone alcun limite all’autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nell’ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata.

La clausola di stabilità può essere apposta nell’interesse di entrambi gli stipulanti o anche di uno solo di essi:

  • Quando è stipulata nel solo interesse del datore di lavoro, il lavoratore s’impegna a non dimettersi per un certo periodo. In tal caso la giurisprudenza ritiene però necessario il riconoscimento al lavoratore di un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà rispetto al recesso contrattuale. Tale corrispettività può concretizzarsi in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria (ad esempio: corsi di alta formazione), purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore.
  • Quando è invece stipulata nell’interesse reciproco del datore di lavoro e del lavoratore, entrambe le parti si impegnano a non recedere dal rapporto di lavoro per un certo periodo; in tal caso la giurisprudenza è concorde nel non ritenere necessario alcun corrispettivo a favore del lavoratore in quanto si realizza un equilibrato contemperamento dell’interesse reciproco alla stabilità per un periodo di tempo limitato.

Il patto di stabilità non prevede uno specifico requisito di forma anche se è preferibile utilizzare la forma scritta. Inoltre, al momento della stipula del patto le parti possono prevedere che in caso di dimissioni – fatto salvo il caso di giusta causa o impossibilità della prestazione – anticipate del lavoratore questo debba versare una somma di denaro a titolo di penale.

In particolare, se il lavoratore si dimette prima della scadenza del periodo di durata minima:

  • il recesso determina, in generale, il risarcimento del danno subito dal datore;
  • se nel patto è prevista una penale l’ammontare del risarcimento del danno è limitato a quanto definito dalle parti, salvo che le parti non abbiano stabilito la risarcibilità del danno ulteriore. Tale penale è dovuta anche senza necessità di provare l’esistenza del danno fatto salva la possibilità del lavoratore di provare un differente ammontare dello stesso.

Se è il datore di lavoro a recedere dal contratto al lavoratore è dovuto il risarcimento del danno subito dal lavoratore per la violazione del patto, oltre alle ulteriori conseguenze previste per la generalità dei licenziamenti nel caso di illegittimità.

IL PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PREAVVISO

L’istituto del preavviso è disciplinato dall’articolo 2118 c.c., il quale prevede la facoltà per le parti di recedere dal rapporto di lavoro (nel rispetto della disciplina in materia di licenziamento) dando preavviso nei termini e modi previsti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità, al fine di tutelare la parte contrattuale che subisce il recesso.

La norma stabilisce inoltre che, in mancanza di preavviso, la parte recedente è tenuta a corrispondere alla controparte un’indennità equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

Di norma sono i contratti collettivi a disciplinare tempi e modalità di preavviso in modo generico valutando aspetti oggettivi quali il livello e l’anzianità e prevedendo nella maggior parte dei casi una riduzione delle tempistiche in caso di dimissioni; accade quindi frequentemente che, soprattutto per alcuni ruoli di rilievo nell’organizzazione aziendale, il preavviso stabilito dai contratti collettivi risulti in concreto inadeguato a tutelare la parte datoriale che subisce il recesso; pertanto potrebbe sorgere l’esigenza di derogare alla durata del preavviso mediante la stipula di accordi individuali di prolungamento del periodo di preavviso.

Tuttavia, da un’attenta lettura del testo normativo si deduce che le “fonti” che possono intervenire sulla disciplina del preavviso sono le norme corporative (quindi la contrattazione collettiva) e gli usi: sebbene non sembri quindi sussistere alcuna apertura all’autonomia negoziale individuale, la facoltà di stipulare una clausola individuale di prolungamento del preavviso è prevista dalla giurisprudenza a patto che venga formulata con modalità che non risultino in contrasto con norme imperative di legge.

In primo luogo, l’eventuale prolungamento del preavviso risulterebbe legittimo a patto che la sua durata non sia eccessiva e tale da comportare una lesione sostanziale della libertà personale del lavoratore di recedere dal rapporto; inoltre, la previsione normativa di una penale in caso di mancato rispetto del preavviso, determina, nel caso in cui il prolungamento pattuito risulti troppo elevato, l’impossibilità di fatto per il lavoratore di risolvere in anticipo il rapporto, a causa dell’eccessiva onerosità della penale, costringendolo quindi a rispettare un vincolo di durata incompatibile con la sua libertà personale.

In secondo luogo è importante che nell’accordo di prolungamento del preavviso, soprattutto se previsto solo in caso di dimissioni, venga riconosciuto al lavoratore un congruo corrispettivo.

Infine sarebbe opportuno andare a regolamentare le conseguenze del mancato rispetto del preavviso prolungato: in tal senso appare pienamente legittima l’inserimento di una clausola che preveda l’eliminazione della penale – per la sola parte eccedente il preavviso stabilito dalla contrattazione collettiva – con obbligo per la parte inadempiente della “sola” restituzione del compenso aggiuntivo pattuito per il prolungamento del preavviso.

IL PATTO DI NON CONCORRENZA

Il patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2125 c.c. è quel patto con il quale, a fronte di un adeguato corrispettivo, viene limitata per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro la possibilità per il prestatore di lavoro di svolgere la propria attività lavorativa in determinate aree o settori in concorrenza con il precedente rapporto di lavoro.

Sulla disciplina e sulle peculiarità del patto di non concorrenza sarebbe necessario un approfondimento specifico date le notevoli complessità; tuttavia, sebbene la finalità prevalente di tale patto è quella di evitare che gli ex lavoratori dipendenti possano svolgere attività lavorative in concorrenza con il precedente datore di lavoro, al fine della presente trattazione il patto di non concorrenza assume rilevanza in quanto è in grado di rivestire un importante ruolo nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro di personale con ruoli strategici: la limitazione dei possibili sbocchi lavorativi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro infatti potrebbe fungere da deterrente per il lavoratore contro la presentazione di dimissioni; inoltre, la presenza di un patto di non concorrenza potrebbe anche ridurre l’interesse dei competitors nell’offrire un posto di lavoro al lavoratore “vincolato”.

IL CONTRATTO A TERMINE

Nell’ambito della trattazione del tema della stabilizzazione dei rapporti di lavoro può apparire provocatorio indicare, come possibile strumento da utilizzare, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro; tuttavia, fermo restando che il rapporto di lavoro subordinato standard è il contratto a tempo indeterminato, per particolari esigenze l’apposizione di un termine al contratto di lavoro fornirebbe maggiori tutele al datore di lavoro rispetto al rischio di recessi anticipati da parte del lavoratore.

E’ infatti opportuno segnalare che nell’ambito dei contratti civilistici l’apposizione di un termine ai contratti, oltre a rappresentare la regola, costituisce l’elemento che porta stabilità all’interno di un rapporto che, altrimenti, potrebbe essere oggetto di recesso da entrambi i contraenti in qualsiasi momento; è solo limitatamente al rapporto di lavoro subordinato, per il ruolo sociale rivestito da tale tipologia contrattuale, che il concetto di “indeterminato” è considerato come sinonimo di “stabilità”. Inoltre è opportuno precisare che il concetto di “stabilità” è riferibile in questo frangente unicamente alle tutele attivabili dal lavoratore in caso di licenziamento, ma non al rapporto di lavoro in sé.

La stabilità nel contratto di lavoro subordinato a tempo determinato è definita dalla circostanza che, per tale tipologia contrattuale, non è prevista per le parti la facoltà di recedere anticipatamente dal rapporto di lavoro rispetto alla scadenza del termine, salvo giusta causa: la giurisprudenza ritiene che il recesso anticipato non possa essere esercitato se non con la consapevolezza che da esso ne potrebbe derivare un danno – che va risarcito – in quanto la parte che recede dal contratto a tempo determinato senza una ragione giustificatrice, lede l’interesse dell’altra parte del rapporto, che faceva affidamento su una determinata durata del rapporto lavorativo.

L’ammontare del risarcimento del danno in caso di dimissioni anticipate può essere predeterminato in fase di stipula del contratto individuale fermo restando che, trattandosi di risarcimento danno, il datore di lavoro che agisca nei confronti del lavoratore è tenuto a dimostrare l’ammontare del danno subito a seguito del recesso anticipato.

L’apposizione di un termine al rapporto di lavoro può quindi, nel rispetto della disciplina in materia di rapporti a termine, contribuire a rendere “stabile” un rapporto lavorativo grazie alla predeterminazione del periodo nel quale le parti si impegnano a prestare attività lavorativa in cambio di retribuzione, senza possibilità di recedere anticipatamente.

 

Alessio Ferrario
Consulente del Lavoro e certificatore Asse.co.
Partner presso Miller Group, Consulente del lavoro presso Studio Albergoni, certificatore Asse.co, iscritto all’albo di Milano.
Email: alessio.ferrario@millergroup.it
Alessio Ferrario

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